Il cuore di alberi - Per ricordare le vittime di Rigopiano
Avevo 12 anni il giorno in cui vidi per la prima volta il cuore di alberi.
Ricordo che dapprima iniziai a correre tutto intorno ad ogni tronco ma non appena mi inoltrai nell'area interna, avvertii un leggero venticello che mi accarezzò il viso.
Mi fermai, chiusi gli occhi e iniziai a respirare a fondo.
Finalmente riuscii a sintonizzarmi con quelle ambite sensazioni che inducevano mio padre, anno per anno, a visitare quella zona, non appena il monte Sella si spogliava della coltre di neve che indossava nel periodo invernale.
"Ma perché papà non ci porta mai con lui?", chiedevo a mia madre, e lei, con la sua vocina premurosa, accarezzandomi il capo, era solita rispondermi con un: "vedrai che un giorno ci porterà con sé".
Mi domandavo perché ci tenesse distanti da quella sua escursione, una gita che programmava con profonda dedizione e che gli procurava un bagliore negli occhi da far invidia alle stelle del cielo.
"Papà, ma nel cuore ci vai con i tuoi colleghi?", gli chiesi una sera mentre eravamo intenti a giocare con la pista delle automobiline.
Il suo sguardo si intristì ma si limitò a rispondermi con un misero "no".
Abbandonai dunque l'idea che mio padre ci andasse per lavoro, per prestare soccorso a qualcuno, per diventare un eroe anche in montagna: ebbene sì, mio padre era un vigile del fuoco, uno di quelli che all'arrivo di una chiamata si infila il tutone, il caschetto e gli stivaloni e va a sfidare un fuoco, o ad aiutare una povera anziana rimasta fuori di casa, o a tirare fuori, da un ascensore guasto, una madre con il suo bambino.
Ogni giorno una storia nuova,un groviglio di personaggi e luoghi, un libro fatto di gioie e dolori, come diceva sempre mia madre, dopo averlo sentito raccontare.
Nella mia mente si fissò, dunque, l'idea che non ci voleva con lui.
Quel pensiero mi faceva male al punto tale che arrivai a tenergli il muso per un bel po' di tempo.
"Perché non parli?", mi chiedeva lui. Ed io restavo zitto, quasi a volerlo punire, quasi a volergli urlare la mia rabbia in maniera silenziosa.
Un bel giorno mi feci coraggio, e con le lacrime agli occhi, gli raccontai il mio dolore, il mio sentirmi escluso da quell'usanza che lo rendeva così appassionato.
Mi sarei aspettato che mi abbracciasse per consolare le mie lacrime, così come era solito fare tutte le volte che i miei occhi piangevano, ma in quell'occasione restò immobile, fermo, sbigottito.
E poi tutto ad un tratto pronunciò quella fatidica frase: "Stavolta venite con me".
Non riuscivo a credere alle mie orecchie ed esultai come ero solito fare quando l'Italia segnava un gol.
Non appena respirai l'aria di Rigopiano, in cuor mio, compresi quell'egoistico atteggiamento, che mio padre aveva dimostrato fino ad allora, di voler tenere per sé il segreto del cuore di alberi.
Ma quando riaprii gli occhi e lo trovai inginocchiato e con il capo chino, provai un profondo senso di dolore, quasi come se qualcuno mi avesse picchiato.
Mi accostai alla sua figura, una figura per me sconosciuta, una figura che si dissociava completamente da quella che avevo sempre intravisto in lui, una figura che non aveva nulla a che vedere con La Forza.
Provai il forte desiderio di appoggiargli una mano sulla spalla, quasi a volerlo consolare per quella sottomissione, quasi a volerlo confortare, così come facevo con i miei compagni di squadra quando sbagliavano un tiro in porta.
Mio padre si voltò e sul suo viso vi trovai dipinto un profondo dolore, un dolore che con il tempo ho imparato a conoscere, un dolore che gli aveva sottratto le parole, rendendolo un uomo introverso, un dolore che lo aveva costretto ad esprimere i suoi sentimenti con i gesti.
"Perché piangi, papà?" gli domandai, accovacciandomi accanto a lui, certo del fatto che mi avrebbe risposto come al solito con un semplice monosillabo.
Ma le parole vennero fuori come un torrente in piena.
"Qui, un tempo c'era un paradiso, un luogo meraviglioso ...".
Fu così che imparai a conoscere il Gran Sasso Hotel di Rigopiano, i sogni di un architetto, la casetta nel bosco, la piscina riscaldata, i bianchi pastori abruzzesi, la neve che venne giù in quel gennaio del 2017, il terremoto che spaventò la clientela, e poi ... quel buio ... il buio che inghiottì le risate, la musica, i rumori del bar, la partita di biliardo ... in un secondo ... il nulla.
"Ci tirarono fuori solo dopo qualche giorno. Eravamo i miracolati di Rigopiano. Eravamo i sopravvissuti, quelli che erano stati tirati fuori dagli uomini del soccorso, uomini che con tenacia, forza, sfidando la fame, la sete, il freddo e le condizioni climatiche avverse, erano riusciti a farci uscire da lì".
Così scoprii che gli alberi, quei 29 alberi, distribuiti a forma di cuore, rappresentavano le vittime.
Ogni albero era un cliente che attendeva l'arrivo dello spazzaneve.
Ogni albero era un dipendente che tra una mansione e l'altra pensava alla sua famiglia.
Ogni albero era un essere umano, con sogni, speranze, illusioni, dolori e gioie, pianti e sorrisi, erano Vita.
"E il cespuglio bianco al centro?", domandai a mio padre quasi timoroso di conoscerne la risposta.
"Era Neve, il pastore abruzzese, che non ce l'ha fatta".
Anno per anno cercai di "battezzare"un arbusto: Linda, Valentina, Alessandro, Cecilia, Marco, Jessica, Tobia, Bianca, Stefano, Marina, Domenico, Piero, Barbara, Sebastiano, Nadia, Sara, Claudio, Luciano, Silvana, Marco, Paola, Emanuele, Luana, Marinella, Alessandro, Ilaria, Roberto, Gabriele e Dame.
Anno per anno, tra le cortecce, cercai i loro visi, le loro storie, il loro passato.
Anno per anno ascoltavo il silenzio e lasciavo che il vento mi accarezzasse il viso.
Ancora oggi, che ho 50 anni, accompagno qui mio padre, anno per anno, per fargli incontrare i suoi dolori, i suoi ricordi, i suoi genitori.
Ci abbracciamo forte forte e restiamo ad ascoltare la voce del vento che alle volte appare come un canto.
Un canto degli angeli.
Gli angeli di Rigopiano.
Roberta Di Iorio
Ricordo che dapprima iniziai a correre tutto intorno ad ogni tronco ma non appena mi inoltrai nell'area interna, avvertii un leggero venticello che mi accarezzò il viso.
Mi fermai, chiusi gli occhi e iniziai a respirare a fondo.
Finalmente riuscii a sintonizzarmi con quelle ambite sensazioni che inducevano mio padre, anno per anno, a visitare quella zona, non appena il monte Sella si spogliava della coltre di neve che indossava nel periodo invernale.
"Ma perché papà non ci porta mai con lui?", chiedevo a mia madre, e lei, con la sua vocina premurosa, accarezzandomi il capo, era solita rispondermi con un: "vedrai che un giorno ci porterà con sé".
Mi domandavo perché ci tenesse distanti da quella sua escursione, una gita che programmava con profonda dedizione e che gli procurava un bagliore negli occhi da far invidia alle stelle del cielo.
"Papà, ma nel cuore ci vai con i tuoi colleghi?", gli chiesi una sera mentre eravamo intenti a giocare con la pista delle automobiline.
Il suo sguardo si intristì ma si limitò a rispondermi con un misero "no".
Abbandonai dunque l'idea che mio padre ci andasse per lavoro, per prestare soccorso a qualcuno, per diventare un eroe anche in montagna: ebbene sì, mio padre era un vigile del fuoco, uno di quelli che all'arrivo di una chiamata si infila il tutone, il caschetto e gli stivaloni e va a sfidare un fuoco, o ad aiutare una povera anziana rimasta fuori di casa, o a tirare fuori, da un ascensore guasto, una madre con il suo bambino.
Ogni giorno una storia nuova,un groviglio di personaggi e luoghi, un libro fatto di gioie e dolori, come diceva sempre mia madre, dopo averlo sentito raccontare.
Nella mia mente si fissò, dunque, l'idea che non ci voleva con lui.
Quel pensiero mi faceva male al punto tale che arrivai a tenergli il muso per un bel po' di tempo.
"Perché non parli?", mi chiedeva lui. Ed io restavo zitto, quasi a volerlo punire, quasi a volergli urlare la mia rabbia in maniera silenziosa.
Un bel giorno mi feci coraggio, e con le lacrime agli occhi, gli raccontai il mio dolore, il mio sentirmi escluso da quell'usanza che lo rendeva così appassionato.
Mi sarei aspettato che mi abbracciasse per consolare le mie lacrime, così come era solito fare tutte le volte che i miei occhi piangevano, ma in quell'occasione restò immobile, fermo, sbigottito.
E poi tutto ad un tratto pronunciò quella fatidica frase: "Stavolta venite con me".
Non riuscivo a credere alle mie orecchie ed esultai come ero solito fare quando l'Italia segnava un gol.
Non appena respirai l'aria di Rigopiano, in cuor mio, compresi quell'egoistico atteggiamento, che mio padre aveva dimostrato fino ad allora, di voler tenere per sé il segreto del cuore di alberi.
Ma quando riaprii gli occhi e lo trovai inginocchiato e con il capo chino, provai un profondo senso di dolore, quasi come se qualcuno mi avesse picchiato.
Mi accostai alla sua figura, una figura per me sconosciuta, una figura che si dissociava completamente da quella che avevo sempre intravisto in lui, una figura che non aveva nulla a che vedere con La Forza.
Provai il forte desiderio di appoggiargli una mano sulla spalla, quasi a volerlo consolare per quella sottomissione, quasi a volerlo confortare, così come facevo con i miei compagni di squadra quando sbagliavano un tiro in porta.
Mio padre si voltò e sul suo viso vi trovai dipinto un profondo dolore, un dolore che con il tempo ho imparato a conoscere, un dolore che gli aveva sottratto le parole, rendendolo un uomo introverso, un dolore che lo aveva costretto ad esprimere i suoi sentimenti con i gesti.
"Perché piangi, papà?" gli domandai, accovacciandomi accanto a lui, certo del fatto che mi avrebbe risposto come al solito con un semplice monosillabo.
Ma le parole vennero fuori come un torrente in piena.
"Qui, un tempo c'era un paradiso, un luogo meraviglioso ...".
Fu così che imparai a conoscere il Gran Sasso Hotel di Rigopiano, i sogni di un architetto, la casetta nel bosco, la piscina riscaldata, i bianchi pastori abruzzesi, la neve che venne giù in quel gennaio del 2017, il terremoto che spaventò la clientela, e poi ... quel buio ... il buio che inghiottì le risate, la musica, i rumori del bar, la partita di biliardo ... in un secondo ... il nulla.
"Ci tirarono fuori solo dopo qualche giorno. Eravamo i miracolati di Rigopiano. Eravamo i sopravvissuti, quelli che erano stati tirati fuori dagli uomini del soccorso, uomini che con tenacia, forza, sfidando la fame, la sete, il freddo e le condizioni climatiche avverse, erano riusciti a farci uscire da lì".
Così scoprii che gli alberi, quei 29 alberi, distribuiti a forma di cuore, rappresentavano le vittime.
Ogni albero era un cliente che attendeva l'arrivo dello spazzaneve.
Ogni albero era un dipendente che tra una mansione e l'altra pensava alla sua famiglia.
Ogni albero era un essere umano, con sogni, speranze, illusioni, dolori e gioie, pianti e sorrisi, erano Vita.
"E il cespuglio bianco al centro?", domandai a mio padre quasi timoroso di conoscerne la risposta.
"Era Neve, il pastore abruzzese, che non ce l'ha fatta".
Anno per anno cercai di "battezzare"un arbusto: Linda, Valentina, Alessandro, Cecilia, Marco, Jessica, Tobia, Bianca, Stefano, Marina, Domenico, Piero, Barbara, Sebastiano, Nadia, Sara, Claudio, Luciano, Silvana, Marco, Paola, Emanuele, Luana, Marinella, Alessandro, Ilaria, Roberto, Gabriele e Dame.
Anno per anno, tra le cortecce, cercai i loro visi, le loro storie, il loro passato.
Anno per anno ascoltavo il silenzio e lasciavo che il vento mi accarezzasse il viso.
Ancora oggi, che ho 50 anni, accompagno qui mio padre, anno per anno, per fargli incontrare i suoi dolori, i suoi ricordi, i suoi genitori.
Ci abbracciamo forte forte e restiamo ad ascoltare la voce del vento che alle volte appare come un canto.
Un canto degli angeli.
Gli angeli di Rigopiano.
Roberta Di Iorio
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